Scoperta come funziona davvero la funzionalità in Incognito di Google che permette di navigare sul web con un maggiore livello di privacy. O almeno così era nelle premesse.
È diventata un’icona il kit da investigatore, cappello ed occhiali per camuffare, scelto da Google come logo della funzione in Incognito che permette di navigare sul web con un maggiore livello di privacy. Almeno così è presentato il programma anche se effettivamente nessuno ha mai capito come funzionasse realmente e quali informazioni il colosso nascondesse realmente e quali eventualmente conservasse.
Un mistero che oggi si risolve, grazie ad una class action proprio contro le politiche di privacy della Big Tech in riferimento a questa funzionalità. Il dato più interessante della cosiddetta causa Brown è che Google si impegna a cancellare milioni di dati sugli utenti e tutti raccolti proprio mentre questi utilizzavano la modalità incognita, segno che il livello di privacy garantito era solo di facciata.
Non è la prima volta che la privacy di Incognito viene messa in discussione e le voci della causa intentata contro il più famoso ed utilizzato motore di ricerca risalgono già alla fine dello scorso anno, quando venne fuori che il colosso aveva preferito stipulare un accordo contro chi gli intentava causa pur di evitare un processo da almeno 5 miliardi di dollari e una credibilità che sarebbe potate essere compromessa.
A distanza di mesi, vengono fuori i parametri dell’accordo e si scopre che sì effettivamente la Big Tech aveva raccolto dati sugli utenti che utilizzavano la funzionalità Incognito e che a questo punto si impegnava a cancellarli tutti. Un data base di dati riguardanti 136 milioni di utenti che verrà cancellato per sempre.
“Siamo felici di eliminare i vecchi dati tecnici” ha spiegato José Castañeda, portavoce di Google, che ha sottolineato però come anche la raccolta di questi dati non sia mai stata associata univocamente ad un utente e che quindi il database non è mai stato utilizzato “per alcuna forma di personalizzazione“. Dati che in sostanza non sarebbero stati venduti a parti terze, permettendo così l’arrivo di pubblicità, e non solo, personalizzate in base alla tipologia di ricerche si effettuano, insomma quello che succede con i famosi cookie della navigazione classica.
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