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Scandalo Zara e H&M: clienti pentiti di aver comprato da loro

Una nuova indagine scandalo fa tremare il mondo del fast fashion e questa volta sono due delle principali aziende di settore a finire sotto i riflettori.

Nuova indagine scandalo per due marchi del fast fashion (Yahoomagazine.it)

Non è il primo e sicuramente non sarà l’ultimo scandalo che coinvolge i marchi del fast fashion. Il vero punto è che fino a questo momento ci si era concentrati su aziende straniere, dove per straniere si intende quelle con stabilimenti e sedi in Asia (leggi Cina).

Pessime condizioni di lavoro a cui si aggiungono capi di bassa e bassissima qualità -prodotti con materiali spesso nocivi- che vanno rimpolpare le casse delle aziende produttrici, con il più logico e classico dei pensieri del consumismo ovvero che se costa poco posso permettermene di più e poco importa quanto duri effettivamente il prodotto perché può essere facilmente sostituto con un altro sempre a poco prezzo. Senza contare poi la parte più importante, quella dal costo più elevato del fast fashion ovvero i danni legati all’ambiente, sia per quanto riguarda lo smaltimento di queste montagne di abiti, sia per quanto riguarda il trasporto delle merci stesse che appunto devono arrivare da un capo all’altro del pianeta.

Ma il fast fashion non è mai stato solo un problema legato alle aziende asiatiche; colpisce anche quelle nostrane, per così dire, aziende cioè nate e cresciute in Europa. Insomma non solo Shein e Temu, ma anche H&M, Zara e Primark, i principali marchi del settore.

Se fino ad ora gli scandali hanno però interessato soprattutto le aziende lontane, una nuova indagine di una ONG britannica mette al centro dell’attenzione H&M e Zara colpevoli, soprattutto, di mentire ai clienti.

Il cotone utilizzato da Zara e H&M non è così sostenibile ed etico

Il cotone utilizzato da Zara ed H&M non è sostenibile (Yahoomagazine.it)

Secondo il lavoro, durato più di un anno, dalla ONG britannica Earthsight il cotone utilizzato dalle due aziende e che è servito in questi anni a ripulire l’immagine delle stesse, lasciando credere ad un orientamento verso una maggiore responsabilità sociale d’impresa, non è né etico né tanto meno sostenibile così come invece certificato.

Al contrario, la produzione di questo tessuto avverrebbe in zone del Brasile deforestate illegalmente. Il lavoro di inchiesta è durato 12 mesi e per arrivare a tali conclusioni, la ONG si è servita di immagini satellitari, registri di spedizione, ma anche di verdetti di giudici brasiliani.

In particolare, il cotone è stato coltivato nella zona del Cerrado caratterizzato da un vasta biodiversità di flora e fauna che negli anni è stata però sottoposta a land grabbing e cioè al sequestro forzato di grandi porzioni di territorio per lo sfruttamento industriale. A complicare ancora di più la storia è che spesso, l’acquisizione di questi territori è stata accompagnata da un allontanamento forzato delle comunità indigene che li abitavano.

Non solo H&M e Zara, gli altri grandi marchi coinvolti

Secondo il report sono stati tracciati 816mila tonnellate di cotone venduto non direttamente ai gruppi di moda, ma ad aziende manifatturiere dell’Asia che poi li trasformavano in capi di abbigliamento o tessili per la casa che a loro volta rivendevano ai marchi del fast fashion.

Ad essere coinvolti non solo la svedese H&M ma anche il gruppo spagnolo Inditex che controlla Zara, Pull&Bear così come Bershka.

In realtà più che le aziende di moda, lo scandalo ha coinvolto la ONG Better Cotton che, nata nel 2005, ha come mission proprio la riduzione dell’impatto ambientale per la produzione di cotone e che, nel caso specifico, certificava come etico il cotone prodotto in Brasile e utilizzato dai marchi. L’inchiesta di fatto, ha messo in luce un nuovo buco nero del fast fashion, ma ha anche fatto emergere molti dubbi proprio sulle capacità di Better Cotton di garantire e tracciare la sostenibilità ambientale e sociale dei prodotti venduti.

Anna Peluso

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